TROPPI SARDI O TROPPO POCO?

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Pepe Corongiu
Pepe Corongiu

Il sogno di una limba normale. Giaime ha sette anni e frequenta a Cagliari la Chatterbox Primary. A scuola, la sua lingua è l’inglese. Ma è in sardo che discute con i genitori il menù di una gelateria della Marina. Ed è in sardo che si rivolge a un amico del babbo, riconosciuto tra la folla: perché è in sardo che l’ha sempre sentito parlare. L’italiano, senza esitazioni, è riservato alla signora sconosciuta che lo accompagna. Tre lingue, tre possibilità di interazione. Tre diverse scelte, istintive e perfettamente mirate.
FAMIGLIE Giaime è il figlio di Giuseppe Corongiu, 48 anni, giornalista specializzato in comunicazione amministrativa, una lunga militanza nel Movimento linguistico sardo, ora direttore del Servizio Lingua sarda della Regione. «Il primo proveniente dal mondo dell’attivismo che riesce a entrare nelle istituzioni», si autodefinisce. Un combattente che si è fatto burocrate. Per la causa. E un genitore sardofono, senza se e senza ma. Perché oggi la lingua sarda può essere salvata dai bambini e dai burocrati. Dai bambini perché la parlano (di nuovo) e presto potrebbero imparare a scriverla, non in alternativa, ma insieme all’italiano e all’inglese. Dai burocrati, perché possono usarla per tradurre documenti istituzionali, che siano “S’Atu de intima” del presidente Ugo Cappellacci al Governo Monti, o una circolare sulle mense scolastiche. Dimostrando che in sardo si può scrivere di tutto, mica solo attitidus, irrocos e ottave. E che si può farlo in modo uniforme in tutta l’Isola, e in tutta l’Isola farsi capire. Come in qualsiasi paese, come in qualsiasi idioma.
FALSE CERTEZZE E infatti “Il sardo, una lingua normale” è il titolo del saggio di Giuseppe Corongiu, edito da Condaghes. “Manuale per chi non ne sa nulla, non conosce la linguistica e vuole saperne di più o cambiare idea”, recita il sottotitolo. «Le lingue normali sono quelle su cui non si discute, perché hanno storie consolidate e posto stabile nel mondo», spiega Corongiu al cronista. Quelle a cui siamo così assuefatti, da considerarle naturali. Dimenticando che ogni lingua, tanto più se scritta, è un fenomeno culturale, una convenzione.
Un po’ Decalogo, un po’ diario di bordo e un po’ J’accuse, l’opera di Corongiu rilegge, in chiave dichiaratamente partigiana, decenni di battaglie politiche e linguistiche. Culminate nell’adozione il 18 aprile 2006, della Limba sarda comuna: un codice ortografico per la traduzione degli atti ufficiali della Regione, che l’allora presidente Renato Soru fa adottare «a titolo sperimentale». Tagliando, come Gordio, il groviglio delle contese accademiche su quale varietà linguistica debba rappresentare la voce dell’amministrazione. Corongiu, il pasionario che si è fatto burocrate, è il responsabile della sperimentazione. Che cammina sul territorio attraverso gli Sportelli linguistici, e potrebbe entrare nelle scuole, ma su cui si accaniscono gli oppositori: «Lingua inventata a tavolino, esperanto inutile». Con tanto di appelli al Consiglio. «Io non sono che un funzionario, esecutore di scelte politiche», si schermisce Corongiu. Ma nel suo libro spara ad alzo zero.
IL CAMPO Terreno e simbolo della battaglia è la quarta di copertina: la Sardegna come un grande puzzle, le tessere variamente colorate a rappresentare le diverse famiglie di lingue/dialetti. A nord, le macchie periferiche di sassarese e gallurese; l’enclave catalana di Alghero. A sud, la macchiolina verde del tabarchino. Ma il grosso dell’Isola è di un bel rosso mattone, uniforme dal centro nord al golfo di Cagliari. Perché una sola è la lingua, nonostante le differenze locali. Come l’italiano dei sardi e quello dei veneti. L’inglese della Regina o quello dei cowboy. Normale.
RICERCHE Dove sono logudorese e campidanese, reciprocamente incomprensibili? Invenzioni, argomenta Corongiu, di un naturalista del Settecento, tale Cetti. Ripreso da Spano e da Wagner in maniera acritica. Ed accettato senza verifica da linguisti, antropologi e storici delle università sarde. Autocolonizzati, pronti a interiorizzare gli stereotipi degli studiosi esterni: la Sardegna come l’Oriente inventato dagli orientalisti e smascherato da Edward Said. A rompere il conformismo – nella ricostruzione di Corongiu – arriva Michele Contini, geolinguista sardo dell’università Stendhal di Grenoble. Compie sofisticate ricerche sul campo, che Corongiu sintetizza così: «Il sardo è una famiglia piuttosto unitaria di dialetti e la tradizionale divisione in logudorese e campidanese non basta a spiegare le mutazioni tradizionali». I lavori di Contini (Direttore dell’Atlante linguistico internazionale romanzo) non sono pubblicati in italiano: troppo scomodi per gli accademici orientalizzati, tuona il polemista. Ma non sfuggono a Diego Corraine, studioso fra i più lucidi del variegato movimento linguistico. Se unitaria è la famiglia delle lingue/dialetti, è più facile ipotizzare una lingua standard nazionale. È la strategia che sfocia nell’adozione della Lsc. Il direttore dell’Ufficio preposto a sperimentarla, martella: non ha base ideologica, ma «scientifica». Lo confermano le ricerche di un altro battagliero sardo in esilio: Roberto Bolognosi, che lavora per l’Università di Amsterdam. Valutate con la linguistica computazionale, le varianti del sardo sono molto vicine. Anche se in un paese si dice fizzu e in un altro fillu, i sardi si capiscono. E possono raggiungere un compromesso: scrivendo figiu e leggendolo ciascuno a modo suo. Come si fa in inglese.
DIBATTITO Il rischio è che la lingua scritta normalizzata sembri estranea proprio a chi non ha mai smesso di parlare il sardo. Corongiu asserisce che lo standard è indispensabile: «Per una lingua minoritaria che voglia candidarsi al bilinguismo è necessario dotarsi di un tecnoletto giuridico-amministrativo che funga da base per la Lingua ufficiale della Pubblica amministrazione». Il paradosso è che una lingua, stigmatizzata ed emarginata in quanto “del popolo” sia ora prescritta dall’alto. «Quante lingue di quelle parlate oggi non sono state imposte d’imperio da parte di autorità amministrative?», scrive l’autore del libro. «Nessuna, e questo gli studiosi lo sanno. Purtroppo non lo sanno i cittadini e quelli che scrivono lettere ai giornali». I rischi e i limiti dell’azione d’autorità non sfuggono ai fautori stessi della standardizzazione. «La politica moderna non è più quella dello Stato assolutista, né esiste oggi un Palazzo d’Inverno linguistico da espugnare», ammonisce il sociologo Alessandro Mongili nell’introduzione al saggio di Corongiu. Consigliando di mobilitare le coscienze dal basso: «In una parola, passare da Lenin a Gramsci». I problemi pratici e le resistenze resteranno. Non perché i sardi siano pocos, locos y malunidos. Ma perché dovunque si scelga uno standard emergono tensioni, sottolinea Mongili. Anche in questo, il sardo è una lingua normale.

 

dae s’Unione Sarda de su 10 de santugaine/ladàmine de su 2013