Lingua sarda tra differenze e malintesi

Lingua sarda tra differenze e malintesi

Il 15 di luglio, La Nuova Sardegna e Sardegna24 hanno pubblicato dichiarazioni del prof. Attilio Mastino, Rettore della Università di Sassari, a proposito della controversia con la Regione sarda circa i corsi di formazione in sardo per insegnanti. Si tratta, a mio modesto parere, di affermazioni sorprendenti, soprattutto per la loro contraddittorietà, che non sappiamo se dipenda da una diversa valutazione di chi ha scritto gli articoli o da opinioni opposte del Rettore stesso.

Infatti, chi ha letto la Nuova ha avuto la sensazione che il prof. Mastino abbia fatto “pace” con la Ras, sconfessando le posizioni dei professori Morace e Lupinu, Manca, Schirru, Toso, della “Commissione lingua sarda” del suo Ateneo, accettando in pieno, quindi, le giuste richieste della Regione nell’incaricare l’Università dei corsi per formare il corpo docente a insegnare “il” sardo e “in” sardo nelle scuole. Niente di meglio del farlo direttamente in sardo per almeno il 50% delle ore di lezione da parte dei docenti universitari, come sembra leggendo le dichiarazioni del Rettore alla Nuova. Del resto, come si potrebbe chiedere tale abilità ai docenti delle scuole inferiori e superiori, se già i docenti universitari non lo faranno? In una grande operazione a cascata dall’alto in basso (che potremmo chiamare “In sardo a scuola”), l’Università sarebbe meritoriamente protagonista del rafforzamento e modernizzazione del sardo, in un settore strategico per la trasmissione della lingua: la scuola. Allora tutto risolto secondo l’articolo della La Nuova Sardegna? Parrebbe di sì.

Però, chi ha avuto per le mani Sardegna24, ha letto dichiarazioni dello stesso Rettore che suonano più “di guerra” che di pace. Infatti, egli afferma che “l’Università di Sassari sosterrà l’insegnamento della lingua sarda con lezioni frontali e laboratori”. Che significa? Che tale insegnamento sarà semplicemente proposto, promosso, auspicato, “sostenuto” quindi, o verrà realmente “effettuato”, più o meno nella percentuale richiesta? Non è una differenza da poco. Staremo a vedere.

Ciò che sgomenta, però, e che minaccia di sminuire o compromettere la portata della formazione (e dell’impegno del Rettore), è l’affermazione secondo la quale: “il sardo non può essere utilizzato per insegnare qualsivoglia materia”. Come, che cosa lo impedisce? Se, nei corsi di formazione, gli insegnanti che ne fruiranno potranno essere di tutte
discipline (dalla chimica, fisica, matematica, scienze, alla storia, geografia, musica, ecc.), che senso ha che il Rettore ponga limitazioni? Quali discipline potranno svolgersi in sardo e perché?

Se ci fossero tali limitazioni o riserve, la formazione sarebbe proposta solo per alcune discipline e insegnanti, con una discriminazione arbitraria, frutto di pregiudizi linguistico-
ideologici, che convertirebbe la formazione stessa in una esperienza mutilata. Questa limitazione è conseguenza di una decisione già adottata nel Progetto sassarese o un parere personale del Rettore, visto che aggiunge: “a meno che non vogliamo cadere nel ridicolo”, in riferimento alla possibile terminologia da adottare in sardo?

Spero che non prevalgano valutazioni personali in una materia così delicata, come sembrerebbe quando si oppone “petrozu” a un – immagino – “petròliu”, sicuramente più giusto e corrispondente agli standard terminologici internazionali oramai affermati, che propongono, anche in sardo e nelle altre lingue neolatine, termini adattati principalmente
dal latino e dal greco. Perché paventare questo pericolo, se saranno i docenti stessi dell’Università a impartire le lezioni, che si atterranno, spero, a protocolli consolidati in materia terminologica? A che serve mortificare o sminuire chi fuori dell’Università opera per rafforzare, promuovere il sardo e ne propone terminologia moderna?

Ben sapendo che, anche altrove, l’Università non è stata la sola a occuparsi degli sviluppi moderni delle lingue emergenti. Da almeno vent’anni è chiaro in Sardegna come si deve operare in terminologia. Anche osservando e studiando le esperienze altrui. Ne sono una testimonianza diverse pubblicazioni, comprese il mensile in sardo SU CURREU dell’Unesco, Le Monde diplomatique in sardo e altri periodici, anche in Internet.

Capisco, tuttavia, la preoccupazione del prof. Mastino, per il semplice fatto che l’Università non ha ancora affrontato quello che – almeno psicologicamente – è uno scoglio per le lingue che si affacciano all’ufficialità e alla modernità come il sardo. Il processo per completare il sardo con la terminologia scientifica necessaria, infatti, può essere compiuto solo quando si affronta la sfida di scrivere in sardo su tutto, come molti di noi sperimentano da tempo.

Ed è pure comprensibile che, all’inizio, non si sappia come comportarsi in campo terminologico. Siamo e dobbiamo essere disposti al confronto, anche per evitare ingenuità sempre in agguato. A tutti noi è forse venuto il sospetto, inizialmente, che in sardo non si possa dire, per esempio, “morfologia” ma semmai “istùdiu de sas formas”, senza
pensare che rischiamo di confondere la parola con la sua definizione. Anche perché, anche in italiano potremmo dire “studio delle forme” ma, poi, non rinunciamo a dire, sinteticamente, “morfologia” (come morphology, morphologie, morfológie in altre lingue), ben sapendo che con “morfologia” non intendiamo solo lo studio delle forme. In tutte le lingue, l’adozione di termini “sintetici”, formati da un solo vocabolo di derivazione greco-latina, in generale, è indice di sviluppo coerente delle lingue, sempre più alto e astratto. Perché ciò non dovrebbe valere anche in sardo?

Crediamo di non dire niente di nuovo. Non vogliamo insegnare niente a nessuno, ma solo stabilire punti di riferimento comuni, capire se parliamo delle stesse cose ormai accettate dappertutto. Non aiuta il descrivere in modo riduttivo, con l’esempio dell’infantile “petrozu” di quarant’anni fa, il mondo che si muove per la modernizzazione e l’ufficializzazione del sardo in “tutti” gli ambiti e usi, così come consente anche la tanto invocata, da più di cinquant’anni, legge statale 482/99 o le tante Dichiarazioni sui diritti linguistici che difendono il diritto di tutte le lingue a compiere il salto verso la modernità in tutti i campi.

Tutti dovremmo, semmai, fare quanto necessario per consolidare il lessico patrimoniale e non allarmarci per l’introduzione di migliaia di internazionalismi in sardo, per favorirne l’uso nell’amministrazione, nelle materie scolastiche, nell’informazione, nella sanità. Direi, per tranquillizzare gli scettici e i tiepidi, che è forse più gravoso difendere le prime 3 o 4 mila parole del lessico fondamentale, pesantemente condizionate dalle innecessarie interferenze dell’italiano (funerale, cuginu/-a, anziché interru, fradile/sorrestra, ecc.), che adottare/adattare termini di dominio
internazionale, parzialmente piegati al sardo.

Ironia della sorte, forse, è più difficile fare una lezione sui rapporti di parentela in sardo immune da italianismi, che una lezione di chimica, in cui i termini “ànodu, àtomu, catalizadore, èteres, eletrolita, ecc.” non hanno accettabili alternative, perché ormai adottate anche da appositi accordi internazionali ISO (Organizzazione internazionale per la standardizzazione). Le difficoltà di insegnare chimica in sardo non derivano dai termini che è necessario adottare e che non potranno essere diversi da quelli di altre lingue, anche non indo-europee, ma semmai dai concetti che corrispondono ai termini stessi. E tale difficoltà, se c’è, è comune a tutte le lingue, non è limitata al sardo. E in questo condividiamo le preoccupazioni dell’Università di Sassari.

Non capisco poi perché, nelle dichiarazioni del Rettore a Sardegna24, si vuole che la Regione valuti opportunamente le osservazioni dell’Università, se subito dopo egli stesso dichiara con tono inusuale: “siamo pronti, se sarà, necessario, a fare corsi a spese nostre”. Con quali soldi, se si dice sempre che l’Università non ne ha? Se invece si avessero, perché non farlo già da tempo, allora, precedendo la stessa Regione e le sue supposte costrizioni? Infine, perché tirare in ballo la “limba sarda comuna”, che non è prescritta nei Piani triennali come norma per l’insegnamento? A che giova buttare sul tavolo del confronto un elemento non proposto da nessuno? Ma poiché il prof. Mastino lo esibisce come oggetto di scandalo e riprovazione, bisogna sottolineare che essa è solo una proposta di norma scritta che, a ben vedere, ha tenuto conto anche della tradizione dei tanti autori di tutta l’isola, che hanno sempre bilanciato la propria varietà personale/locale con una modalità più universale. Non solo non è in contraddizione con latradizione letteraria, ma ne è l’espressione più coerente e comprensiva.

Ma per fugare le evidenti diffidenze e malintesi, non sarebbe utile che il Rettore Mastino avviasse un confronto aperto e specifico, sui rapporti tra varietà locali e possibile modalità ufficiale, tra oralità e scrittura, tra lingua parlata e lingua letteraria? Sarebbe un passo avanti per tutti, se abbiamo davvero a cuore lo stesso risultato positivo per il futuro della lingua sarda.

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